Di seguito un articolo molto efficace (perchè sintetico e chiaro) nel descrivere la prospettiva epistemologica di tipo “costruttivista” in psicologia e psicoterapia.
L’autore lo fa dapprima inquadrando il tema a livello storico e scientifico (operazione necessaria quando si parla di argomenti psicologici) e poi entrando nello specifico della Psicologia dei Costrutti Personali.
Per quanto tale teoria non sia una mia specializzazione, trovo molto interessante la sua disamina, non fosse altro per l’affinità epistemologica e concettuale che il modello interazionista ha con l’impostazione costruttivista in psicoterapia.
“Costruttivista” infatti è un termine che se usato a vari livelli può creare dei fraintendimenti:
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a livello epistemologico infatti, sono costruttiviste tutte quelle teorie (non solo psicologiche, ma anche matematiche o biologiche) che si rifanno ad una filosofia della scienza post-moderna, e quindi agnostica, relativista ed ermeneutica. E’ l’osservatore con le sue categorie che costruisce l’oggetto osservato
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A livello di modelli teorici di psicoterapia, si intendono “costruttiviste” quelle terapie che partendo dall’opera di Kelly (1955) hanno sviluppato un insieme di contenuti teorici e di prassi coerenti con l’evoluzione post-moderna della filosofia della scienza e quindi con un impostazione conoscitiva fenomenologica ed ermeneutica
Il modello di terapia interazionista, come quello strategico, hanno infatti in comune con quello costruttivista la stessa matrice epistemologica: il costruttivismo, appunto.
Per questo trovo questo scritto molto interessante.
Buona lettura
Daniele Boscaro
Nuove prospettive teoriche in Psicologia: la prospettiva Costruttivista
Dott. Massimo Giliberto
Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Costruttivista (ICP) di Padova e Direttore Responsabile della Rivista italiana di Costruttivismo
1. Introduzione storico-epistemologica
1.1 La questione del significato
Il motivo per cui sono stato invitato qui oggi, è parlarvi di un approccio psicologico considerato fra i più recenti e innovativi in psicologia: il costruttivismo1.
Il costruttivismo è certo – nelle sue molte varianti – qualcosa di nuovo, ma, singolarmente, ad esso appartengono vecchie questioni che la psicologia aveva abbandonato o, nella sua fondazione scientifica, deliberatamente espulso (Armezzani, 2002).
A cosa mi riferisco?
Se io chiedo ai miei studenti – ed è una domanda che faccio – qual è l’oggetto della psicologia, spesso provoco il più assoluto disorientamento e le risposte si accavallano in una dissonante polifonia. Nulla di grave, si potrebbe pensare; in fondo chi più degli psicologi è abituato ad una babele teorica? Il problema qui, tuttavia, è che non vi è differenza di vedute di un medesimo oggetto, ma differenti oggetti. Sicché pare non sia una polifonia teorica, ma un insieme di discipline diverse con oggetti diversi; viceversa, se voi provate a chiedere ad una qualsiasi persona – che non sia uno psicologo – quale sia la competenza degli psicologi, è facile che costui vi risponda che lo psicologo è l’esperto dell’esperienza umana e dei suoi significati. Pensate alle domande che più frequentemente la gente ci rivolge: “Ho fatto un sogno, che significa?”, oppure “Perché mi comporto così?”, ecc.
Ecco qual è la vecchia questione che l’oggettivismo scientifico ha espulso e che oggi, non solo grazie al costruttivismo, è tornata chiaramente al centro del nostro teorizzare e praticare la psicologia: la questione del significato (ibid.).
La novità, dunque, chiude un cerchio e recupera qualcosa di molto antico. Parafrasando altri, è un po’ come se i contadini avessero riscoperto che il loro mestiere è coltivare la terra (Bannister & Fransella, 1986).
Sta di fatto che oggi le tesi di laurea, le riviste scientifiche fanno sempre più frequentemente esplicito riferimento ai significati, alla soggettività e all’esperienza delle persone concrete; temi irrintracciabili nelle stesse riviste e negli argomenti di tesi fino ad alcuni anni fa (Armezzani, 2002).
Come si è arrivati a questo?
1.2 L’emergere del ‘significato’ come alternativa alla visione oggettivistica e naturalistica della scienza.
Non è mia intenzione farvi un dettagliato resoconto storico (ve lo risparmio volentieri), tuttavia qualche breve accenno al contesto storico di questo importante mutamento di prospettiva, può aiutarci a comprendere meglio la direzione che stiamo tracciando.
I fattori che hanno contribuito alla crisi dell’approccio realista e, conseguentemente, a questa riscoperta del significato, sono, a mio parere, almeno tre: l’affermarsi del movimento post-moderno, l’evoluzione dell’antropologia culturale e lo sviluppo della cibernetica.
Questi movimenti – ed è questo il loro comune denominatore – criticano un assunto fondamentale della scienza realista: l’autonomia dell’osservatore dall’oggetto osservato.
Un oggetto che, secondo il ‘positivismo scientifico’, è là fuori, separato dall’osservatore, concretamente e obiettivamente esistente a prescindere da chiunque. Questo è l’assunto che, seguendo il positivismo, anche la psicologia ha fatto proprio, costruendo il proprio sapere come appannaggio di un esperto che è soggetto conoscente indipendente. Una visione delle cose densa di implicazioni anche per chi, di mestiere, fa lo psicologo.
L’implicazione clinica e culturale di una tale visione è che chi soffre, soffre perché è inadeguato, non sa adattarsi alle cose della vita; in altre parole, non è un soggetto conoscente altrettanto capace di guardare alla realtà, vederla correttamente. ‘Guarire’, allora, vuol dire leggere meglio – grazie all’esperto – la realtà stessa, il suo oggettivo susseguirsi di accadimenti. I problemi, dunque, vanno semplicemente scovati e le cure vanno somministrate.
Analogo approccio è riservato alle minoranze, alle differenze, alle culture altre: a tutte viene attribuita una percezione povera o distorta della realtà, una devianza biologica o culturale. Così chi non rientra nel modello normativo della cultura bianca occidentale va educato, colonizzato o, in qualche caso, curato (Gemignani, 2003 e Giliberto, 2004).
Tutto questo – come ho già detto – si regge su una premessa epistemologica, fondamentale e spesso tacita: la distinzione fra il fenomeno (dato di fatto) e l’osservatore. Una distinzione asettica per una scienza asettica. Un’asepsi che tuttavia non cela neanche troppo bene un atteggiamento spregiativo nei confronti di tutti coloro che, a vario titolo, sono considerati ‘altri’ e, nel nostro caso, dei cosiddetti pazienti (Basaglia, 1968).
Si evidenzia, perciò, una prima radice critica nascosta fra le pieghe di una questione epistemologica, e questa prima radice è indiscutibilmente una radice etica. Il significato riemerge, dopo tanti anni, fra le braccia di una levatrice speciale: l’Etica.
Questa prospettiva critica, nelle sue varianti, ha spesso proposto alternative stimolanti alla visione oggettivistica e realistica della scienza e della psicologia. Non sempre, io credo, tali alternative sono risultate soddisfacenti, soprattutto quando al rigore scientifico hanno semplicemente sostituito una vaga e idealistica soggettività.
Il movimento post-moderno
Da una parte, il movimento post-moderno ha raccolto molteplici istanze sociali accomunate dalla critica alla presunta neutralità della scienza e tese a ricostruirne il contesto storico e ideologico; sicché il sapere scientifico, ben lungi dall’essere impersonale e dato una volta per tutte, appare ideologicamente orientato e fondato sui presupposti di chi lo produce. Presupposti che sono, spesso, presupposti di potere. Sono le minoranze, allora, che danno forma e slancio a questo movimento e fra queste, per esempio, le femministe che denunciano una psicologia oppressiva nei confronti delle donne (Gelli, 2002), o i fautori dell’antipsichiatria che individuano nella classificazione della patologia un corpus vessatorio, segregante, manipolativo e utile, in definitiva, solo a chi lo maneggia (Basaglia, 1968, Foucault, 1979 e 1980, Mecacci, 1999).
L’antropologia culturale
Da un’altra parte, l’antropologia culturale, finalmente affrancatasi dalle scorie del colonialismo, legittima l’esistenza di codici interpretativi culturali diversi rispetto a quello proprio della cultura occidentale, non meno degni o evoluti rispetto a questo; semplicemente evolutisi in direzioni diverse. Nessuna cultura – questo è il messaggio – può arrogarsi il privilegio della verità (Gemignani, 2003).
Il pensiero cibernetico
Infine, lo sviluppo del pensiero cibernetico, concretizzatosi nella cosiddetta seconda cibernetica (anche se ormai qualcuno parla della terza), includendo rigorosamente – spesso con un linguaggio matematico – l’osservatore nel sistema osservato, ha dato una forte e determinante scossa all’immagine di una scienza fondata sulla sostanziale separazione di un osservatore comodamente seduto alla finestra dall’universo che lo circonda. E’ il sistema che operativamente si chiude. Alla ricerca di oggetti esterni si sostituisce la ricerca sull’organizzazione del vivente, sul modo cioè in cui i soggetti che conoscono organizzano e producono le proprie conoscenze (von Glasersfeld, 1998).
2. Centralità del significato: le premesse e le implicazioni etiche
Questo recente periodo storico ci ha lasciato soprattutto un interrogativo sul modo in cui conosciamo. Ma interrogarsi sul modo in cui conosciamo, vuol dire interrogarsi sul significato e sul modo in cui lo produciamo, sull’esperienza del conoscere.
Come dicono Maturana e Varela (1984), è la caduta di un tabù: conoscere la conoscenza.
Anche in psicologia è questo l’argomento di cui ci si occupa, adesso esplicitamente. La linea di confine fra teoria ed epistemologia si assottiglia, e forse scompare: le teorie psicologiche costruttiviste si presentano come teorie della conoscenza. Ed è all’interno di questo occuparsi dell’altro come soggetto conoscente, narratore della sua esistenza, attivamente impegnato a produrre letture coerenti e condivise della realtà, che ineluttabilmente ri-emerge oggi il significato.
Il significato tuttavia, non è un tema facile e, assieme ad altre definizioni, come ‘esperienza’ e ‘soggettività’, si presta facilmente a rimanere indistinto ed evanescente. Lo si può dunque approcciare accontentandosi di lasciarlo avvolto da una certa nebbia o, all’inverso, affrontarlo in maniera esplicita.2
Il significato può essere espulso dall’oggettivismo realista o essere assorbito nella soggettività più assoluta e vivere dentro la bolla insondabile dell’idealismo solipsista, o può essere elaborato – in alternativa tanto al realismo quanto all’idealismo – entro una cornice rigorosa, il tertium datur costruttivista per cui ‘la realtà non è indipendente da chi la osserva’, ma non è nemmeno un’illusione.
Poiché, allora, “qualunque cosa detta è detta da qualcuno” (Maturana e Varela, 1984), da una parte l’oggettività è anch’essa una visione delle cose che non coincide con esse, se non per un dato osservatore, dall’altra, la soggettività idealistica si dissolve nella necessità di avere ‘qualcosa’ da dire. Un ‘qualcosa’ che nasce da un incontro, poiché non può esservi esperienza senza incontro e senza una dimensione sociale e linguistica entro cui celebrarlo. A sua volta, una dimensione sociale e linguistica che non è data una volta e per tutte là fuori di noi – come ci dimostrano gli antropologi – ma che è anch’essa il frutto di una continua e circolare ri-costruzione cui partecipiamo assieme agli altri.
In altre parole, nessun significato può essere concepito se non a partire dall’esperienza vissuta (essere qualcosa per qualcuno).
E’ questo, l’emergere di un nuovo e ancora rivoluzionario paradigma centrato sulla costruzione del significato e quindi sui costruttori di significato: le persone.
Vorrei essere capace di rendere l’ampiezza e la radicalità di questo salto paradigmatico con tutte le implicazioni teoriche, applicative ed etiche che ne conseguono. Mi accontenterò, invece, di qualche cenno.
2.1 L’alternativismo costruttivo e l’abbandono della certezza
Affermare che la conoscenza non è la percezione passiva e diretta dei fatti, ma un processo attivo di costruzione e interpretazione equivale ad affermare che “tutte le nostre attuali interpretazioni dell’universo sono soggette a revisione o a sostituzione”.
E’ questo l’alternativismo costruttivo dell’inventore della Psicologia dei Costrutti Personali, Gorge Kelly. E’ questa l’esperienza che la storia, qualsiasi storia, personale, scientifica o universale, ci lascia fra le mani. Così, di volta in volta, la ‘realtà’ consiste nella costruzione delle persone che ritengono di averla indagata e analizzata; una ‘realtà’ che continuamente cambia, lungo le dimensioni dello spazio e del tempo su cui viaggiano i vagoni delle nostre esperienze personali e culturali. Ciò che era ‘vero’ ieri non lo è più oggi. E spesso questo cambiamento avviene per salti, crisi e rivoluzioni, come sanno quelli che fra di noi fanno i terapeuti, o come ci dimostra Kuhn (1962) nella suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche. La presunta verità di ogni sapere scientifico, in sostanza, non è altro che il risultato di processi sociali e storici, è un testo narrativo che scorre. E questo nonostante il senso comune e i nostri sensi prepotentemente paiono dirci: che la realtà è lì fuori, dotata di senso e struttura a prescindere da noi.
Bannister e Fransella (1986), efficacemente scrivono:
“In questo caso l’assunto è che di qualsiasi natura possa essere, o in qualsiasi modo risulti alla fine la ricerca della verità, gli eventi che affrontiamo oggi sono soggetti a tanto numerose costruzioni quanto la nostra intelligenza ci permette di concepire. Ciò non vuol dire che una costruzione sia buona quanto qualsiasi altra […]. Ma ciò ci fa ricordare che tutte le nostre percezioni attuali sono aperte alla discussione e alla riconsiderazione, e suggerisce ampiamente che persino i più ovvi accadimenti della vita potrebbero mostrarsi totalmente trasformati se fossimo sufficientemente inventivi da costruirli in maniera diversa” (p. 26)
E’ il tramonto di un’illusione: l’illusione della certezza.
In una prospettiva costruttivista, la certezza è l’espressione del bisogno di muoversi in un mondo stabile entro cui rintracciare coordinate e fissare una direzione. Un mondo stabile a cui spesso ci riferiamo appellandoci disperatamente al senso di realtà. Un bisogno, certo, cui cediamo volentieri reificandolo, rendendolo ‘cosa concreta’. Evitare questa sorta di trappola vuol dire guardare alla certezza come a una costruzione di certezza, entro cui costruire e ricostruire le nostre coordinate e dare direzione alle nostre azioni.
Nessuno nega la necessità di avere direzioni verso cui muoversi. Del resto, la direzione – la si chiami intenzionalità, come i fenomenologi, o anticipazione, come i costruttiviste kelliani – è il carattere costitutivo di qualsiasi significato. Non vi è significato senza una direzione perché ogni significato esprime una sostanziale direzionalità. ‘Buono’, per esempio – entro un qualsiasi tessuto di altri significati – ci permette anticipazioni molto diverse da ‘cattivo’. ‘Martello’, per fare un altro esempio, ci porta verso il battere dei chiodi. I significati, quindi, non stanno dentro persone: i significati sono movimento, percorsi fra noi e il mondo, fra noi e gli altri
Pur lontano da quello che può essere considerato un pericoloso soggettivismo, Kelly, come gli altri costruttivisti, afferma semplicemente che non possiamo avere un contatto diretto con la realtà, libero da interpretazioni: possiamo soltanto fare delle ipotesi su ciò che la realtà è, e poi verificare se funzionano. Verifichiamo, in altre parole, se quei percorsi ci portano da qualche parte.
Von Glasersfeld (1989), d’altro canto, ci mette in guardia dall’abitudine di concludere che, qualora un concetto, un’ azione, una strategia ci porti al fine desiderato, questo successo debba rivelarci un aspetto di una realtà indipendente. In ottica costruttivista, un tale nesso è necessariamente illusorio: qualsiasi successo dell’agire o del pensare non significa altro che quel il particolare modo di agire o di pensare risulta possibile.
Non c’è mai una sola strada che superi un ostacolo.
E’ l’invito a trascendere l’ovvio e a sostituire al senso di realtà il senso della possibilità (Armezzani, 2002).
Un senso della possibilità che ci conduce fuori dall’idea di un unico universo e ci consegna a un multiverso, un senso della possibilità che si apre a nuovi orizzonti e chiude vecchie prigioni. Un senso della possibilità che induce Kelly a dire che: “L’uomo non è né prigioniero del proprio ambiente, né vittima della propria autobiografia”. (Kelly, 1955)
2.2 Riflessività, circolarità & affini
L’altro aspetto fondamentale, annoverabile fra i presupposti di una teoria costruttivista – e la teoria dei costrutti personali fra queste – è la circolarità del processo di conoscenza descritta dagli epistemologi contemporanei, l’autoreferenzialità, ossia la sostituzione di criteri esplicativi lineari – quali ‘causa-effetto’ o ‘input-output’ – con criteri circolari e riflessivi. Una teoria della conoscenza – e queste teorie psicologiche sono teorie della conoscenza – non può spiegare tutto tranne che se stessa. Che teoria della conoscenza sarebbe? Deve viceversa interrogarsi su se stessa, sui propri meccanismi generativi e non può più espellere l’osservatore dal fenomeno osservato. E’ l’inquietante posizione di chi si interroga sulla conoscenza, includendo in questo interrogativo l’interrogativo stesso. E’ il disorientante ma euristico circolo della conoscenza della conoscenza.
Di fatto, la psicologia dei costrutti personali – che qui stiamo usando come modello di teoria costruttivista – “è un atto di costruzione spiegato dalla teoria dei costrutti personali” (Bannister e Fransella, 1986). In altre parole, la PCP non spiega tutte le altre teorie psicologiche – quelle dei nostri pazienti, per esempio – tranne che se stessa.
Potremmo forse dire che ogni atto di conoscenza parte da presupposti e significati che l’esperienza modifica, in un circolo continuo.
In altre parole, ogni conoscenza non parte da un oggetto esterno e s’infila in un soggetto (magari nel suo cervello), ma è prodotta da qualcuno. Parafrasando Maturana e Varela, ogni teoria è agita, incarnata da qualcuno. Noi siamo le nostre teorie sul mondo.
La PCP, dunque, non esiste a prescindere da chi la rappresenta e ne fa il fondamento del suo agire.
Gli elementi che hanno una particolare rilevanza concreta nella nostra pratica professionale, ma anche politica e sociale, le implicazioni di questo paradigma circolare possono essere riassunti in (Goldstein, 1997):
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attenzione al processo di cui si è parte,
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partecipazione,
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auto-organizzazione,
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Sfida alle condizioni di equilibrio.
E vedremo meglio più avanti cosa questo può voler dire.
L’alternativa? Una visione lineare e comportamentale, dove il sistema è ridotto al suo comportamento e l’ambiente (definito come interno od esterno poco importa) – su cui viene necessariamente posto l’accento in termini di controllo – è semplicemente causativo in termini di input.
La conoscenza della conoscenza, il principio stabilito della ricorsività, la consapevolezza di una serie di possibili costruzioni alternative della realtà, collocano quindi il costruttivista di fronte ad una serie di implicazioni importanti che non sono semplici finezze teoriche, ma vere e proprie istanze etiche tanto professionali quanto personali, tanto pubbliche quanto private, tanto intime quanto politiche (Giliberto & Iantaffi, 2003).
2.3 I presupposti come istanze etiche & l’etica della responsabilità
Prima di arrivare ad analizzare, magari con qualche esempio, in cosa tutta teoria si traduce sul piano della pratica, vale forse la pena spendere due parole su un altro genere di implicazioni di questi presupposti: le implicazioni etiche. Territorio duro, territorio difficile in cui non volglio addentrarmi oltre misura…
Del resto, ho già detto – descrivendo il contesto culturale entro cui il costruttivismo ha preso corpo – di come una prima e forte radice critica da cui questo modello ha tratto forza e ispirazione, sia stata una radice etica. L’etica ‘dissennata’ e anticonformista di gruppi marginali o minoritari, avversa all’apparente assennatezza di una cultura fortemente centrata sulla norma, sulla durezza delle categorie e sul dogma della propria verità: l’etica fondata sulla basilare legittimità e la pari dignità delle varie, possibili visioni del mondo.
L’alternativismo costruttivo, la riflessività della teoria, l’emergere del significato come unità di misura del nostro rapporto col mondo, il primato dell’esperienza sul mero dato, il senso della possibilità come presupposti alternativi all’oggettivismo e al senso di realtà, comportano una rinuncia importante: la sicurezza che le cose stanno in un certo modo e noi non ne siamo responsabili, la delega alla realtà del senso delle cose.
La psicologia costruttivista, quindi, è anzitutto una psicologia della responsabilità. Una responsabilità ineludibile. Non essendo più la Verità o la Realtà a governare il mondo, ognuno è responsabile della propria visione delle cose e delle conseguenze che queste visioni hanno sugli altri.
Vedete, siamo tornati – semmai ce ne eravamo allontanati – al significato, per dire che ne siamo in qualche modo responsabili.
Lo psicologo costruttivista, rimettendo le persone al centro dei propri interessi, dichiara esplicitamente (e se ne assume la responsabilità) di esprimere un atteggiamento nei loro confronti, un modo di mettersi in relazione. Il fatto che la psicologia sia esplicitamente una ‘scienza’ inventata dalle persone su se stesse, conduce a considerare fondamentali i valori personali in relazione alle tematiche professionali. Non è, dunque, più eludibile la dichiarazione dei valori personali che guidano le nostre scelte professionali (ibid.).
Circolarità e alternativismo, in altre parole, costituiscono le radici dell’etica della responsabilità, di una responsabilità che – umanamente e professionalmente – non ci permette mai di ‘tirarci fuori’ dalle situazioni in cui ci troviamo, da ciò che diciamo, da ciò che facciamo o che, pensiamo, ci facciano gli altri.
In fondo, a ben guardare, l’unico mondo di cui disponiamo è quello che co-costruiamo con i nostri simili (Maturana & Varela, 1984).
3. Fare psicoterapia
Che tipo di pratica clinica, o comunque professionale, può coerentemente scaturire da queste premesse teoriche ed etiche?
Quando, ormai qualche tempo fa, ho incontrato questo modello teorico, ricordo di avere pensato che mi somigliava. Venivo dalle letture di Focault, Derridà, Bannister, Basaglia, Bateson, Goffman ed avevo vissuto un periodo storico ancora denso di fervore politico e mi definivo un ribelle o, in un’accezione più elegante, una ‘mente aperta’. Probabilmente ero, di fatto, un saccente rompiballe. Lo studio dell’antropologia culturale con il Prof. Gualtiero Harrison aveva spalancato nuovi orizzonti e la storia della psicologia studiata in chiave epistemologica con Sadi Marhaba, aveva ulteriolmente allargato e dato ordine alle mie idee, componendo il senso di caotica frammentazione che gli studi universitari mi avevano lasciato in eredità.
Ma nulla mi aveva preparato alla sconvolgente consapevolezza – maturata prima negli anni della mia formazione terapeutica e poi nella pratica professionale – che non ero affatto un esperto, così come anche i miei clienti sembravano pensare.
Esperto, poi, di che?
Accadeva che la mia idea di essere una persona libera e dalla mente aperta faceva i conti con quanto il mio patrimonio culturale, da una parte, e le esperienze che stavo conducendo, dall’altra, mi suggerivano: facevo davvero fatica a rinunciare alla mia posizione dominante. A questo ero stato lungamente educato: a diventare un rispettabile professionista esperto in qualcosa. Esperto, comunque, in una misura maggiore di chi avevo di fronte. Come avrei potuto giustificare, altrimenti, il mio stipendio o il mio onorario?
Non ero differente – e questo mi faceva soffrire – da chi professava ed esercitava un approccio dall’alto al basso, una psicologia di impostazione coloniale dove chi è il ‘più evoluto’ studia il meno evoluto; una psicologia, questa, perfettamente coerente con l’idea di un mondo esterno, abitato da fatti che lo scienziato-psicologo conosce meglio del suo paziente e a cui può ricondurlo; una psicologia che tratta le interpretazioni dei pazienti come intrinsecamente sbagliate e da correggere, da evolvere.
Gli strumenti operativi e concettuali di questa psicologia – di cui non riuscivo mio malgrado a liberarmi – erano la diagnosi, le procedure, le tecniche. In disaccordo con me stesso, arrivavo in terapia e mi chiedevo, preliminarmente, come modificare il mio cliente. Per fare questo lo riducevo entro un’interpretazione ‘di un livello più profondo’ o superordinato del suo problema, cercavo di stabilire quale fosse la direzione verso cui condurlo e sceglievo le tecniche più idonee. E ritenevo di essere un costruttivista. No, le due cose non andavano bene insieme. Non sapevo se ritenevo più odioso manipolare direttamente il cliente o, fingendo di fare qualcos’altro (magari anche con me stesso), manipolarlo ugualmente. Cominciavo a pensare che la mia presunta apertura mentale fosse un bluff e che le teorie che avevo tanto amato un semplice, quanto inutile, esercizio intellettuale.
Di fatto, l’esperienza mi insegnava che nessuno dei due approcci funzionava: o le terapie non erano di alcun giovamento al mio cliente o, quando funzionavano, funzionavano per motivi molto diversi da quelli che io avevo supposto. Spesso il cliente diceva delle cose sorprendenti e che io non avevo minimamente previsto. Parlandomi di una svolta nelle loro storie dolorose, dicevano cose del tipo: “Quello che lei mi ha suggerito l’ultima volta mi ha aperto gli occhi!”. Solo che io non ricordavo di avere mai detto né pensato niente del genere.
Scoprivo nei ‘fatti’, e non solo più in teoria, due cose apparentemente banali:
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la potenza dell’interpretazione e,
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che l’altro è diverso da me ed ha una sua autonomia fuori dal mio controllo.
Forse potevo rinunciare, senza troppi danni, alla mia ‘rispettabilità’ e cominciare ad esplorare la mia responsabilità. L’esperienza, ancora una volta, mi portava a nuovi e più percorribili significati. Ma era un’esperienza vissuta e concreta – non più solo letta o riferita – quella attraverso cui mi muovevo. Qualcosa si muoveva nella mia narrazione su cosa fosse la terapia e su cosa fossi io come terapeuta. Potevo abbandonare vecchi e radicati presupposti perché facevo esperienza diretta di nuove possibilità. Quanto avevo studiato poteva davvero realizzarsi in una forma narrativa praticabile.
Più sapevo abitare l’ignoranza come approccio terapeutico, più cose scoprivo. Le narrazioni dei miei clienti diventavano più ricche e creative. Meno prefiguravo una direzione certa verso cui andare, maggiori erano le soluzioni plausibili che si presentavano. Più mi ritenevo parte di una conversazione ‘alla pari’, più questa forma di relazione sembrava legittimare e innescare nei clienti che io cominciavo, non solo a definire, ma anche a percepire, come co-terapeuti.
In sintesi, mano a mano che rinunciavo alla rispettabilità dell’esperto, il mio lavoro con gli altri sembrava giovarsene.
Ora, fare dell’ignoranza un criterio di professionalità può apparire da un lato paradossale (e forse lo è, ma non me ne preoccupo) e, dall’altro, può indurre a credere che io non facessi nulla e mi fossi completamente deresponsabilizzato (ma come…!).
Non è cosi. La disciplina dell’ignoranza – soprattutto nel nostro contesto culturale – è una disciplina difficile. Essa attiene alla presenza piena dell’altro (non come oggetto) e, in qualche modo, ai modi verbali del pensiero, della parola e, in definitiva, della relazione. Tutto attorno a noi parla all’indicativo e afferma, indiscutibilmente afferma.
L’indicativo, infatti, è il modo del linguaggio oggettivo.
George Kelly scriveva: “Non c’è luogo come la stanza della psicoterapia dove sia più evidente questa schiavitù semantica. E’ lì che si può vedere chiaramente come le persone siano intrappolate dai verbi all’indicativo e come, d’altra parte, siano portate a credere che bisogna sempre scegliere tra realtà che si escludono reciprocamente…”
L’uso del congiuntivo, agito e pensato, è decisamente più complesso. Ma è proprio il congiuntivo che suggerisce possibilità e, accennandole, le propone senza imporle. E’ nel congiuntivo che la presenza dell’altro può darsi. Se l’indicativo, infatti, attiene al senso di realtà, è il congiuntivo che può esprimere il senso della possibilità. E’ il congiuntivo, trasferito nella forma della relazione e non solo nei suoi contenuti, che diluisce quando non annulla la gerarchia di una relazione terapeutica.
Il congiuntivo, insomma, può non essere solo un modo di coniugare dei verbi, ma anche un senso da imprimere alle nostre relazioni e alle storie che in esse si formano e si trasformano.
“Ha mai pensato che potrebbe…”, “E se supponessimo che…”, “Lei che farebbe se…”: sono espressioni che si diramano verso il futuro in una serie di possibilità non precostituite.
Proviamo allora a guardare il criterio dell’ignoranza attraverso i quattro principi teorici ed astratti che vi avevo proposto poc’anzi.
Attenzione al processo di cui si è parte
Non possiamo accorgerci della nostra preziosa ignoranza se non facciamo attenzione a questo. La mia ignoranza è emersa nel momento in cui ho potuto distrarmi dalla rispettabilità del ruolo, per capire quale senso avessi io e le cose che facevo o che dicevo in quella relazione. Attenzione al processo di cui si è parte, perciò, vuol dire presenza. E vuol dire riflessività, perché ciò che vedo, dico e faccio dipende dai miei presupposti e non da una presunta realtà. Dunque è bene che sia consapevole di questi presupposti e che li tratti come tali… al congiuntivo: sono presupposti e teorie discutibili, e non dogmi. Io sono l’insieme provvisorio di questi significati, ma anche il mio cliente è una teoria in movimento.
In altre parole, proviamo a non dimenticarci mai che il nostro oggetto di studio – il nostro cliente – è parimenti il soggetto di studio: una persona impegnata a dare senso al proprio mondo, al pari dello psicologo che ha di fronte.
Partecipazione
Se l’esperienza, il significato e l’interpretazione diventano il nostro ‘pane’ e riconosciamo all’altro esattamente ciò che riconosciamo a noi, ossia l’essere una persona fondamentalmente impegnata a dare senso al mondo, non abbiamo scelta: possiamo solo tentare di comprenderla. Il che equivale a dire che l’interazione personale è nei termini della comprensione reciproca.
In base alla nostra comprensione della visione del mondo dell’altro possiamo cercare di aiutarlo, divertirlo, cambiarlo, accompagnarlo, sostenerlo o ferirlo; ma in tutti questi modi siamo parte di un processo sociale con l’altro. Se tuttavia questa comprensione non si dà, se cioè non riusciamo a capire in quale modo e attraverso quali vie l’altro vede le cose, allora potremo fare delle cose a lui, ma né metterci in relazione né fare delle cose assieme a lui.
Possiamo, in effetti, distinguere una psicologia della manipolazione da una psicologia della comprensione (Kenny & Gardner 1998).
Nel caso della psicologia della manipolazione avremo uno psicologo esperto che, ovviamente, tenterà di fare delle cose al suo paziente. Egli lavorerà sulle emozioni, oppure sui pattern familiari, sui sintomi oppure sugli schemi cognitivi disfunzionali. In tutti questi esempi, la lettura del professionista è considerata più vera di quella del suo paziente e lo sforzo che necessariamente ne consegue è quello del controllo. Si cerca, in perfetta buona fede, di modificare l’altro esattamente nella direione voluta.
Nel caso della psicologia della partecipazione avremo uno psicologo non-esperto, che fa della propria ignoranza il proprio punto di forza professionale e che cercherà di fare delle cose assieme al suo cliente. Perché questo avvenga, il terapeuta dovrà cercare di impiegare la stessa struttura narrativa del suo cliente, senza eluderla. Capire l’altro, in quest’ottica, dovrebbe essere più simile alla comprensione di un testo narrativo, testo narrativo di cui via via si diventa parte, piuttosto che alla spiegazione puntuale di un vecchio modo di concepire la scienza (Butt, 2004). Sarà come leggere un libro e scivolare fra le sue pagine, per contribuire ad una narrativa diversa. Una nuova storia dove, possibilmente, il nostro cliente esce dalle sue trappole e dalle sue sofferenze.
Auto-organizzazione
Se l’esperto può pretendere di indirizzare l’altro verso la soluzione che egli ritiene opportuna, controllandolo, il terapeuta non-esperto rispetta e legittima l’autonomia interpretativa dell’altro e non può pretendere né di educarlo di né di controllarne la vita. Il terapeuta costruttivista sarà aperto a varie possibili visioni del mondo e – anche se può permettersi di non condividerle – le accetterà.
Questo vuol dire essere aperti alla sorpresa, non temerla. Ogni visone del mondo – per quanto possa sembrarci bizarra e sorprendente – ha un suo senso, ed esprime quanto di meglio chi la incarna è in grado di esprimere.
Se accettiamo questo, dovremo rinunciare a stabilire degli scopi terapeutici predefiniti che non siano negoziati nel corso della relazione.
Potremmo usare un’altra metafora: la metafora del viaggio. Vi sono almeno un paio di modi di viaggiare che conosco, e forse il primo non lo definirei neanche ‘viaggio’. Questo primo modo di affrontare un trasferimento si basa sulla meta prestabilita e, magari, sui tempi di percorrenza. Chi viaggia in questo modo stabilisce subito dove andare e quando arrivarci. Io, che ho la passione della barca a vela, conosco molta gente che persino con questo mezzo, così ecologicamente connesso con il mare e con il vento, programmano così le loro crociere estive. E dove non c’è vento o ce n’è poco, accendono il motore. Io, in genere, li evito. Con ciò non voglio dire che questo sia un modo sbagliato di fare le cose: va bene, per esempio, per i nostri impegni lavorativi che vanno rispettati e richiedono tempistiche precise.
Ma c’è un altro modo di viaggiare: ascoltando il mare, il vento e gli umori dell’equipaggio. Stabilita la direzione, la meta verrà fuori da sola. E non ci perderemo le tante cose che sono per la via, ossia: il percorso diverrà non solo una cosa da superare, magari in fretta, ma parte costitutiva del viaggio stesso.
Allo stesso modo, questa teoria si trasforma nella proposta di un viaggio: il viaggio attraverso i mondi e le teorie degli altri; ma anche il viaggio nel nostro modo di conoscere queste teorie.
Sfida alle condizioni di equilibrio
In che senso ‘sfida alle condizioni di equilibrio’?
In almeno due accezioni, direi.
La prima accezione riguarda la tentazione di affezionarsi troppo a un particolare modo di vedere le cose. In terapia, per esempio, il pericolo è di affezionarsi troppo ad un’ipotesi. Un altro pericolo è che il terapeuta si dimentichi i presupposti personali da cui parte e li dia per scontati: è scontato che l’ansia va sedata, è scontato che chi si droga si fa del male, è scontato che la famiglia migliore sia eterosessuale, ecc. Ma tutto questo è davvero scontato?
Poiché non ci dimentichiamo che vi sono vari modi di dare senso al mondo, la prima sfida va lanciata a tutto ciò che ci sembra ovvio.3
La seconda accezione è una diretta conseguenza della prima e riguarda la struttura della teoria che il clinico usa per comprendere l’esperienza e i significati altrui. Se l’idea che vi è sempre un modo alternativo di costruire le cose è il cuore della sfida a qualsiasi impietrita condizione di equilibrio, che tipo di teoria potrà permetterci di trattare equanimamente con così tante visioni del mondo? Abbiamo già detto che la linea di confine fra teoria ed epistemologia si è assottigliata, abbiamo già detto che le teorie costruttiviste, anche quelle più miratamente psicologiche, sono teorie della conoscenza… Possiamo aggiungere che una teoria di tal genere dovrà essere una teoria di teorie, vuota, priva di contenuti, astratta. I significati ce li metteranno i nostri clienti, e noi nella relazione con loro. La teoria dovrà servire, allora, solo a dare ordine a questi significati, dovrà permetterci di organizzare in modo comprensibile le storie e le esperienze dei nostri clienti senza imprigionarle in codici di significato predefiniti.
La quint’essenza di questi codici, nella psicologia cui siamo abituati, sono le diagnosi. Lo strumento principe del clinico, nonché il suo salvagente. Le diagnosi paiono la nostra condizione di equilibrio, o, almeno, a una qualche condizione di equilibrio rimandano. La diagnosi tradizionale, secondo la prospettiva costruttivista, infatti, si traduce nell’operazione con cui l’esperto costringe i significati della persona che gli sta di fronte dentro le scatole concettuali del suo sistema teorico, entro dimensioni di significato preconfezionate (depressione, disturbo bipolare, narcisismo, ecc.) e statiche.
Ma possiamo fare a meno della diagnosi. Forse no. Possiamo tuttavia riconfigurarla nei termini di una sfida al precostituito e alla stasi.
In una prospettiva costruttivista – almeno nell’ottica della Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly – la diagnosi è un’interpretazione anch’essa – e come tale soggetta a revisione – caratterizzata dall’essere ‘transitiva’ e ‘transitoria’.
Che vuol dire?
La diagnosi costruttivista è transitiva perché si riferisce a un movimento. L’esperienza e la conoscenza (e io qui direi che possiamo tranquillamente trattarli come sinonimi) non sono concepibili se non in movimento. I significati stessi non sono tali se non li immaginiamo tracciare una rotta attraverso le situazioni e il tessuto narrativo della nostra esistenza.
La diagnosi deve servire a noi, ma anche al nostro cliente, per tracciare una rotta verso il futuro.
La diagnosi costruttivista, per le stesse ragioni, è preferibilmente transitoria: possiamo cambiare idea e mutare diagnosi, così come la stessa natura transitiva della diagnosi, riferita a un movimento e non ad una stasi, implica che essa cambi nel tempo. Il nostro cliente sarà impegnato, magari con il nostro contributo, a tracciare nuove rotte.
La diagnosi, di per sé, non è fatta per durare. Se questo accade, vuol dire o che stiamo cadendo nel tranello dell’esperto e ci siamo innamorati di lei, o che il nostro lavoro langue.
La ‘madre di tutte le domande’, alla base di questo tipo di diagnosi, potrebbe essere: cosa sta cercando fondamentalmente di fare questa persona? E poiché ciò che sta cercando fondamentalmente di fare, sebbene sia quanto di meglio egli possa fare, sebbene sia la sua migliore condizione di equilibrio attuale, nondimeno lo porta verso trappole e dilemmi irrisolvibili, noi, anche attraverso un tal genere di diagnosi, con infinito rispetto, ne sfideremo l’equilibrio.
4. Conclusioni
Mi ero assunto, consentitemi, un compito non facile. Riassumere un pensiero variegato e complesso, denso di elementi filosofici, in un’ora o meno. Non so se ci sono riuscito e come.
Spero però di essere riuscito a comunicarvi quanto ‘amore’ vi sia in questo approccio, seppure così astratto e formalizzato, quanto rispetto verso gli altri lo permei e quanto interesse verso il modo in cui le persone vedono il mondo lo abiti. Saper guardare il mondo con gli occhi dell’altro, questa è, forse, la nuova sfida.
Si, io credo che tramontato il tempo della neutralità scientifica e dei suoi feticci, senza necessariamente rinunciare al rigore, sia venuto il tempo del significato e della passione che ad esso si accompagna.
Grazie.
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Note
1Anche se, con Piaget, di costruttivismo si parla fin dagli anni trenta e le sue radici sono rintracciabili nel pensiero dei socratici, degli scettici, di Vico, di Kant, di William James ed altri illustri pensatori.
2Come per esempio ha fatto Maria Armezzani in un libro bellissimo: Esperienza e significato nelle scienze psicologiche. Naturalismo, fenomenologia, costruttivismo, edito nel 2002 da Laterza.
3 Sebbene la prospettiva possa essere inquietante, l’alternativa a me pare ancora più inquietante: escludere tutto ciò che trascende le nostre ‘buone ragioni’.